Dio e l'uomo nella teologia del '900- 16 marzo 1989
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La riflessione teologica ebraica e cristiana dopo Auschwitz

Paolo de Benedetti


Faccio una sola premessa, molto rapida; vi prego di considerare il termine Auschwitz come una specie di ideogramma: è entrato nell’uso indicare con Auschwitz non solo quanto è avvenuto nei campi di Auschwitz, ma tutto quello che riguarda lo sterminio degli ebrei.
Per molti anni (e ancora adesso) a proposito dello sterminio degli ebrei si è usata la parola “olocausto” che è stata, pare, introdotta da Elie Wiesel. Lo stesso Wiesel recentemente si è pentito di questa scelta perché la parola olocausto è estremamente impropria. Infatti l’olocausto è una offerta fatta dal sacerdote a Dio e che Dio gradisce. Ora è chiaro che i nazisti non erano sacerdoti e Dio non gradiva questo tipo di sacrificio.
Oggi si usa il termine ebraico “shoah” che significa catastrofe, rovina, disastro; siamo però talmente abituati a parlare di olocausto che spesso usiamo ancora questo termine: più correttamente si dovrebbe usare “shoah”.

La teologia occidentale ha pensato che ci fosse un modo mitico e un modo non mitico di parlare di Dio.
Il modo mitico è proprio delle religioni mitologiche. Rientra nel modo mitico ogni forma di antropomorfismo, benché chi usi gli antropomorfismi, per esempio la Scrittura, sappia benissimo che queste espressioni non vanno prese alla lettera.
Già con i Padri della chiesa, ma già con la Scrittura stessa e poi con tutta la filosofia e la teologia medioevale e moderna, ci si è convinti di poter parlare di Dio in modo non mitico. Proprio questo è ciò che noi dobbiamo mettere in dubbio: dobbiamo ricrederci. Al massimo potremo tentare di sostituire certi miti con altri miti.
Per miti non intendo una cosa falsa, ma un discorso non concettuale, non astratto.

Partiamo da un mito divino. Nei capp. 33 e 34 dell’Esodo compare un episodio molto strano. E' appena avvenuto il “fattaccio” del vitello d’oro e, dopo questo trauma, Mosè chiede a Dio di mostrargli la sua faccia: “Fammi vedere la tua gloria!” Dio gli risponde: “Tu non puoi vedere la mia faccia perché l’uomo non mi può vedere e vivere. Tu mi vedrai di schiena’ ’ (Es. 33, 20-23). Dopo un piccolo intervallo, nel cap. 34 dell’Esodo, viene raccontata questa “teofania di schiena”: Dio nasconde con la mano Mosè in una cavità della roccia, in modo che Mosè non lo possa vedere. Dio passa e, dopo che è passato, Mosè lo vede di schiena e sente la proclamazione che Dio fa dei propri attributi. Nella liturgia ebraica si enunciano i tredici attributi di Dio: il Signore Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di grazia e fedeltà ... (Es. 34, 5-7).
Parto da questo episodio straordinario perché combina nello stesso tempo il massimo dell’antropomorfismo ed il massimo di teologia negativa; qui abbiamo, nello stesso tempo, un mito e la negazione del mito, l’antropomorfismo e la sua negazione.
Rabbi di Kotzk, un rabbino chassidico del secolo XVIII – XIX, commentava così questo episodio: “Tutte le cose contraddittorie e storte che gli uomini avvertono sono chiamate la schiena di Dio. La sua faccia invece dove tutto è armonia nessun uomo la può vedere”.
Oggi Auschwitz ci costringe a chiederci se esista la faccia “tutta armonia’’ di Dio.

Perché i casi sono due:
1) Se il volto tutta armonia non c’è, se cioè non c’è Dio dopo Auschwitz, non c’è neanche una domanda su Dio. L’ateo, tutto sommato, è in una posizione più comoda, più facile, migliore di quella dei credenti. Non si pone domande su Dio, su un essere che non esiste.
2) Ma se il volto “tutto armonia” c’è, allora nasce un problema che in questi ultimi venti anni è stato enunciato da molti autori, da Wiesel e da altri pensatori ebrei (specialmente americani) e cristiani.
Il problema può essere esposto così:
Se c’è un volto “tutto armonia” di Dio perché è successo quello che è successo? In termini più brutali: cosa ci sta a fare questo volto “tutto armonia”?
Questa domanda di partenza del nostro discorso mette in gioco un altro problema posto con la massima forza da Wiesel, lo scrittore che più ha riflettuto su questo argomento, a partire da esperienze molto drammatiche perché ha vissuto l'esperienza del campo di sterminio dove ha perso prima la madre e la sorellina e poi il padre.
Il problema è questo: si deve tacere di queste cose o si deve parlare? Tacere o parlare?
Nel libro “Un ebreo oggi” pubblicato da Morcelliana, ad un certo punto Wiesel enuncia con grande chiarezza: “Non esiste una letteratura dell’olocausto, non può esistere. Lo stesso termine “letteratura” è un controsenso perché c’è un abisso incolmabile tra la memoria del sopravvissuto e il riflesso di essa nelle parole, anche nelle parole dei sopravvissuti, e così non può esistere una teologia di Auschwitz”.
Non può esistere né una letteratura né una teologia, ma noi diremo, rovesciando questa affermazione, rovesciata anche da Wiesel: “Deve esistere. Il sopravvissuto sa, è il solo a sapere, di qui un’ossessione di impotenza per giunta da un senso di colpa”. Contemporaneamente Wiesel afferma: “Chi dimentica diventa complice del nemico”.
E allora che cosa si deve fare? André Neher ricorda il comando della Bibbia. Nella Torah, e in particolare nel libro del Levitico, è prescritto: “Se un testimone che assiste ad un fatto non testimonia è colpevole”.
Quindi l’obbligo di testimoniare esiste e perciò chi ha visto, chi è stato ad Auschwitz deve parlare, anche se questo parlare gli fa sentire costantemente come sarebbe molto più degno tacere. Deve raccontare.
Nel discorso teologico contemporaneo un insieme di riflessioni vanno sotto il nome di “teologia narrativa”; si dice giustamente che il cuore della fede ebraica e cristiana consiste non nella enunciazione di concetti, ma nel racconto di eventi. Del resto, siamo vicini alla Pasqua cristiana e tra poco più di un mese alla Pasqua ebraica, entrambe eventi che hanno valore per noi solo se vengono raccontati. Ma dopo Auschwitz, oltre alla tradizionale teologia narrativa del racconto dell’esodo dall’Egitto e dell’esodo di Gesù, abbiamo un’altra teologia narrativa: dobbiamo raccontare Auschwitz.
Entra subito in gioco una situazione ben descritta dal filosofo della religione Italo Mancini. In un saggio molto bello questi sostiene: “Noi ci troviamo spesso, come credenti o come filosofi, in una situazione che non è dialettica, perché la dialettica comporta sempre che dopo la tesi e l’antitesi ci sia la sintesi, ma in una situazione di opposizione non risolta, in cui io credo e professo A e nello stesso tempo devo credere e professare NON A. Devo essere consapevole che nella mia esistenza non potrò mai arrivare a conciliare A e NON A ma neanche a ripudiare A o NON A”.
Mancini la chiama, riferendosi a Dostojevskij, “la logica dei doppi pensieri”.
Il nostro discorso sarà tutto governato dalla logica dei doppi pensieri, a partire da ciò che abbiamo appena detto: l’impudicizia del parlare di Auschwitz. Siamo seduti in una sala riscaldata, e parliamo o ascoltiamo abbastanza accademicamente cose che accademiche non sono. Nello stesso tempo il comandamento del Levitico 5,1 dice: “Tu devi testimoniare”. Naturalmente deve testimoniare il testimone, ma deve anche testimoniare chi ha ascoltato i testimoni perché presto i testimoni non saranno più vivi.

Infine un’altra aporia è il rischio inevitabile è che su queste cose si scrivano pagine molto belle. Per esempio, alcuni libri di Wiesel (non tutti) sono belli. Cosa possiamo dire quando questa realtà ineffabile, in senso negativo e mai in senso positivo, diventa bella letteratura?
Wiesel afferma (e noi condividiamo): “Ci ripugna profondamente, perché la bellezza, in un certo senso, anestetizza la testimonianza, ma d’altra parte la rafforza”.

Questi sono alcuni dei problemi preliminari, per chiunque si debba occupare di ciò di cui ci stiamo occupando.
Non farò una rassegna completa di autori ebrei e cristiani che si sono occupati di Auschwitz; posso solo dire che, in questi 44 anni, il percorso è stato più o meno il seguente:
- nella prima fase si sono pubblicati documenti, diari, anche romanzi, testimonianze, atti di processi agli aguzzini: materiale, magari letterario, ma soprattutto documentario.
- nella seconda fase, molto ritardata rispetto alla prima, ci si è resi conto che Auschwitz costringe a porsi domande teologiche.
L’ebraismo americano ha prodotto molto su questi temi; e così l’ebraismo francese. L’ebraismo italiano non ha prodotto quasi nulla, ha fornito testimonianze di valore inestimabile (i libri di Liana Millu, di Giuliana Tedeschi e Primo Levi) ma non ha sviluppato il discorso teologico.
In campo cristiano ci è voluto un tempo immenso perché si arrivasse a prendere coscienza del problema. Vi basti pensare che in un documento vaticano, peraltro buono, uscito nell’85 “Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella catechesi” si afferma ancora che i cristiani devono rendersi conto del valore, dell’importanza che ha l’olocausto per gli ebrei. Questo “per gli ebrei” è un inciso abominevole, evidentemente inconsapevole.

Oggi un panorama di pensatori, prima scrittori e letterati e poi teologi, si pongono le seguenti domande: Dov’era l’uomo ad Auschwitz? Dov’era Dio ad Auschwitz?
L’ambito della prima domanda ha come suo massimo esponente Primo Levi con “Se questo è un uomo”. “Dov’era Dio ad Auschwitz?” ha come massimo esponente Wiesel.

Prima di presentare le posizione ebraiche, quelle cristiane e un po’ anche le nostre vorrei spiegarvi una espressione ebraica: “Kivjakòl”. Quando nella tradizione rabbinica si sta per dire qualcosa di enorme su Dio, di paradossale, si premette la parola Kivjakòl, che si potrebbe tradurre con “Se fosse permesso dire”. L’espressione significa: quello che diciamo è un paradosso, è un mito, ma lo diciamo perché in qualche modo entra nella questione.

Posizione ebraica

Il primo documento ebraico che vi leggo è uno dei più antichi, risale ancora al periodo dello sterminio. Sarebbe interessante leggere anche un altro documento, trovato tra le rovine di un insediamento ebraico in Polonia, dopo la guerra. È un diario tenuto da un bambino del popolo: “Il diario di David Rubinowicz”, pubblicato da Einaudi tanti anni fa e non più ristampato.
Mi limito a citare un brano di una poesia di un poeta Jiddish che combatté e morì nel ghetto di Varsavia, Itzhak Katzenelson. Molti testi dei combattenti del ghetto venivano interrati in bottiglie dai protagonisti che sapevano che sarebbero morti. Questi testi vennero fortunosamente ritrovati.
Katzenelson dice:
“(...) Ascoltate, ascoltate tutti:
è bene che un Dio non esista…anche se fa così male stare senza di Lui!
(…) c’è un Dio! Che ingiustizia! Che beffa! Che vergogna!”
Via Mila è la strada di Varsavia dove venivano concentrati gli ebrei per avviarli ai campi di sterminio.

Il romanziere ebreo-americano Bernard Malamud, morto poco tempo fa, in una intervista pone queste domande: “Perché Dio fa ciò che fa? Perché Dio non ci ama di più e meglio? Perché abbiamo bisogno di Dio? Dov’è Dio?”

Un altro documento, ritrovato nelle rovine del ghetto e pubblicato, è di un certo Jossl Rakover ed è noto come “Il testamento della fornace”. Qualcuno mette in dubbio l’autenticità di questo documento: non l’autenticità concettuale ma il fatto che sia stato ritrovato tra le rovine del ghetto. È un problema che non è stato risolto.
“Io credo al Dio d’Israele anche se ha fatto di tutto per spezzare la mia fede in lui. Io credo alle sue leggi anche se contesto la giustificazione dei suoi atti. Io mi piego davanti alla sua grandezza ma non bacio il bastone che mi infligge il castigo. Io l’amo ma ancor di più amo la sua legge”.
Questa affermazione è sulla linea della cosiddetta “lite con Dio”, il combattimento con Dio, il cui prototipo è l’episodio di Giacobbe che lotta con l’angelo; altri esempi sono le liti di Giobbe e Geremia con Dio. Questo atteggiamento di contestazione a Dio percorre tutta la storia ebraica post-biblica fino ad oggi.

Lisa Billig in un'intervista ha chiesto a Isaac Singer:
‘‘Perché dobbiamo soffrire?”
Singer ha risposto: “Si, questa è una tale domanda che se anche fosse Dio a darci la risposta, questa non sarebbe ancora una risposta. Rimaniamo frustrati perché non c’è una risposta alla sofferenza. La risposta sta aldilà di questo mondo, nel dopo. Io mi rifiuto di ringraziare e di lodare Dio per quello che ha permesso fosse fatto a 6 milioni di ebrei. Io ce l’ho con Dio. Lui è grande e io sono piccolo, ma se lui mi fa qualcosa che considero ingiusto, io mi arrabbio”.

Su questo problema sono molto belle le pagine del libro di Neher “L’esilio della parola”, edito da Marietti. Neher è morto qualche mese fa e questo è il penultimo libro da lui scritto. Neher ritorna spesso sul fatto che nella Bibbia appaiono contestazioni a Dio, ma che nella Bibbia non ci può essere una risposta alle nostre domande post-Auschwitz perché nella Bibbia non c’è Auschwitz.

Wiesel afferma: “La massima rivelazione di Dio per l’ebreo è stata il Monte Sinai, la Pentecoste. È stato il trionfo della Legge, della volontà di Dio. Ma c’è un altro Sinai che è l’anti-Sinai, cioè la massima rivelazione non della presenza di Dio ma della assenza di Dio ed è Auschwitz. La negazione di ogni legge, un fatto al di fuori della storia”.
Neher che era ebreo osservante, commentando Wiesel dice: “A questi tre esseri cioè Abramo, Giobbe, e Dio simultaneamente Wiesel chiede ragione del loro operato, perché con le loro tergiversazioni, i loro fallimenti, le loro abdicazioni, Abramo, Giobbe e Dio hanno adulterato la verità, hanno costretto la Bibbia a raccontare delle storie che non reggono davanti alla realtà. La grandezza tragica dell’opera di Wiesel consiste in questo sforzo disperato di far dire alla Bibbia, di fronte ad Auschwitz, ciò che la Bibbia non può dire, perché ciò che ha detto lo ha detto quando Auschwitz non esisteva ancora”.
Il pensiero combinato di Neher e Wiesel è uno dei modi più laceranti oggi di considerare il rapporto con Dio. Ripeto che il nostro discorso vale se noi crediamo in Dio, perché se non crediamo in Dio non abbiamo nessuna domanda e non aspettiamo nessuna risposta.

Quindi la logica dei doppi pensieri si pone in questo modo: “Credere in Dio e non accettarlo”.
Vedremo poi qual è forse una via, “se così si potesse dire”, per accettarlo. Non una soluzione, perché soluzioni non ci sono.

Potrei leggervi molte testi di Wiesel ma basti raccontarvi la trama del suo libro: “Il processo di Shamgorod”.
Ne “Il processo di Shamgorod” Wiesel riprende una vicenda che egli colloca nel 1649, cioè nell’anno in cui i cosacchi, spintisi verso Occidente, massacrano migliaia di ebrei.
La scena ci porta in un villaggio dove, in una osteria gestita da ebrei, ci sono un oste e sua figlia. Tutti gli altri membri della famiglia sono stati uccisi.
Arrivano tre attori girovaghi ebrei per la festa di Purim (carnevale) quando, tradizionalmente, si rappresenta, per la gioia dei bambini, la storia di Ester. I girovaghi offrono all’oste di rappresentare questa storia, ma l’oste vuole che si rappresenti un processo a Dio. L’oste farà l’accusatore: “Io sono fedele a Lui ma ce l’ho con Lui; i miei figli sono stati uccisi, mia figlia stuprata dai cosacchi ed è impazzita”. E chi fa il difensore? Non c’è processo senza difensore ma nessuno vuol fare il difensore. “Che miseria, il creatore dell’universo che non trova un difensore”. Arriva un brillante viaggiatore e chiede di cosa si stia discutendo e si offre per essere il difensore di Dio.
Arriva il Pope avvisando che stanno ritornando i cosacchi e propone: “Fingete di battezzarvi così vi salvo.” L’oste risponde: “Io ce l’ho con Dio ma non sarà mai che Lo rinneghi.”
Il viaggiatore fa del suo meglio per difendere Dio ed espone un trattato di quella che si chiamava teodicea: “Chi sei tu, o uomo, che pretendi di giudicare Dio? Ma non sai che Dio tutto quello che fa, lo fa per il tuo bene? Se ti vengono delle disgrazie sono per correggerti, tu non sai quali sono i disegni di Dio ...”.
Quando stanno per arrivare i cosacchi, gli attori e l’oste chiedono al difensore di Dio chi è per parlare così di Dio. Egli si toglie la maschera: è il diavolo.
È il diavolo che fa teodicea dopo Auschwitz. Diciamolo in altri termini: dopo Auschwitz la teodicea è diabolica perché difende un’immagine di Dio che ci spinge al rifiuto di Dio.

Nel percorso teologico ebraico su questo tema (anche se “teologico” non è parola che si addica all’ebraismo) alcuni pensatori che adottano posizioni diverse, per esempio Emil Fackenheim di cui in Italia è uscito il libro: “La presenza di Dio nella storia”, pubblicato da Queriniana.
Egli afferma: “No, noi dopo Auschwitz dobbiamo proporci una cosa sola: di non dare una vittoria postuma ad Hitler e la vittoria postuma a Hitler sarebbe se, per disperazione o per altro motivo, il popolo ebraico cessasse di esistere, quindi il nostro imperativo è: esistere.”
La fedeltà a Dio in qualche modo è funzionale alla necessità di esistere, quasi che Dio sia l’elemento che permette a Israele di esistere.
Si tratta di una posizione in qualche modo credente ma in cui il problema viene in qualche modo reso antropologico. In altri termini: non c’è una risposta in Fackenheim a dove fosse Dio ad Auschwitz, ma c’è solo una risposta al problema: che cosa dobbiamo fare noi ebrei dopo Auschwitz?

Nello stesso periodo (tra gli anni ’60/’70 quando nel mondo cristiano era di moda la cosiddetta teologia della morale di Dio) David Rubenstein, un pensatore ebreo americano, al tempo stesso rabbino e psicanalista, ha scritto un libro intitolato “After Auschwitz” in cui sostiene che Dio è morto ad Auschwitz.
Cito le sue parole: “L’onnipotente è il nulla, il nulla è il Signore di tutta la storia”
Il problema non è come parlare di Dio in un’epoca senza religione, ma è come parlare di religione in un’epoca senza Dio. Perciò per Rubenstein la religione diventa antropologia, diventa strumento che permette al popolo ebraico di mantenersi, con la premessa che Dio non c’è. Anzi potremmo dire, e qualcuno lo ha detto, che per Rubenstein il dopo Auschwitz ha trasformato la religione in psicoterapia: “Io ebreo, dopo Auschwitz posso essere religioso anche senza credere in Dio, perché questo mi fa bene”.

È la tesi, anteriore ad Auschwitz, del cosiddetto “ricostruzionismo”, una corrente ebraica americana.
Tra questi pensatori americani Eliezer Berkowitz quello che più si avvicina a Wiesel e al nostro modo di pensare; egli prende le mosse dalla dottrina ebraica “del nascondere il volto”, l'autoesclusione di Dio, Dio nasconde il suo volto.
Il male consiste non in una punizione di Dio, ma in un inesplicabile ritiro di Dio dall’innocente che soffre. Il nascondere il volto da parte di Dio non è una risposta all’uomo, al comportamento dell’uomo, ma è una qualità di essere di Dio.
Berkowits ritiene che l’olocausto richieda una nuova comprensione di Dio, ritiene che abbiamo sopravvalutato non la potenza di Dio, ma piuttosto la bontà di Dio.

Il rabbino americano Arthur Cohen ha pubblicato un libro intitolato “Il Tremendum” e un articolo con lo stesso titolo: “Il tremendum degli ebrei” nel n. 5 dell’’84 della rivista “Concilium” tutto dedicato all’olocausto come interruzione della teologia e della storia. Cohen afferma: “Possiamo immaginare che il Dio delle perfezioni somme, onnisciente, onnipotente, provvidente, e giusto, emerga dal calderone del nostro umano tremendum senza critiche? (....) Ma la vita di Dio nei suoi effetti, dalla cui attenzione noi dipendiamo per rivelazione e istruzione non può passare indenne e senza revisione attraverso il 1945”.
“Perché se Dio ha fatto un miracolo ed è entrato nella storia con l’esodo, ha mostrato un tale ritirarsi dalla storia ad Auschwitz?” chiede Steven T. Katz, un altro teologo ebreo americano.
Cohen dice: “Se Dio ha parlato una volta o molte come afferma la Scrittura perché non ha più parlato? Che dire di un Dio che parla solo alle orecchie dei primi e più antichi e poi per millenni resta il silenzioso e non parla? Solo un Dio malevolo rimarrebbe silenzioso quando la sua parola riuscirebbe a terrorizzare e a bloccare 1’abbattersi del braccio nemico”.

Perciò il silenzio di Dio è il bersaglio principale dei teologi post- Auschwitz.
Stupisce in questa panoramica un’altra idea sostenuta da uno storico israeliano, Amos Funkenstein, che in Francia ha pubblicato, in un volume di vari autori, un saggio intitolato “Interprétations théologiques de l'holocauste: un bilan”. Funkenstein, opponendosi a tutti gli autori che ho citato finora, sostiene che l’olocausto non è l’uscita dall’umano, non è l’indicibile opposto a Dio ma, e afferma ciò in maniera in certo senso scandalosa, l’olocausto non fu sprovvisto di senso.
Su questo tema torna esplicitamente Wiesel quando che afferma che non c’è episodio nella storia dell’umanità così privo di senso come l’olocausto.
Funkenstein, invece, afferma: “no, non è stato privo di senso, è stato concepito con una lucidità razionale che fa sì che debba essere paragonato, sia pure con segno negativo, ai più bei prodotti dell’ingegno umano”.
Vi riferisco per dovere di documentazione questa tesi di Funkenstein, ma credo che la risposta dovrebbe essere questa: non è che quando una cosa è fatta con intelligenza abbia senso e per non avere senso debba essere fatta senza intelligenza. Ci sono, nella storia dell’uomo, opere prodotte dall’intelligenza e assolutamente prive di senso. Un essere mitico della tradizione cristiana e ebraica è intelligentissimo ed è l’opposto del senso: il diavolo.

L’ultimo testo che vi leggo è un episodio raccontato da un teologo cristiano.
Il protagonista di questo episodio è Lejvik uno scrittore jiddish, autore del grande dramma degli anni ’20 intitolato “Il Golem”.
Robert Martin Achard in un libretto “Abraham sacrifiant” racconta una sue esperienza:
“Nel 1956, guardando a Gerusalemme la collina sulla quale sorgeva e sorge il monumento commemorativo dell’olocausto, (una specie di grande cripta con una fiamma perenne in cui sono scritti i nomi dei campi di sterminio, sotto ogni nome è stata messa un po’ di cenere dei morti) Lejvik ricordava quando bambino aveva ascoltato dal suo rabbino il racconto del sacrificio di Abramo e gli aveva chiesto angosciato: “E se l’Angelo fosse arrivato in ritardo?” E il rabbino gli aveva risposto: “Sappi, figlio mio, che l’Angelo non arriva mai in ritardo”. Oggi, ribatteva, sappiamo che sei milioni di volte l’Angelo è arrivato in ritardo”.

Pensatori cristiani

Sergio Quinzio in due libri pubblicati da Adelphi, “Dalla gola del lupo” e “La croce e il nulla” sviluppa il tema dell’impotenza di Dio.
“Il volto del nulla può convertirsi nel volto di Dio onnipotente nella storia, la cui causa è indifendibile. Neppure Dio avrebbe avuto la forza di iniziare la strada che va da Bereshit cioè dall’imprincipio, all’Amen se l’avesse conosciuta”.

Il teologo che ha scritto meglio e di più su questo tema è Johann Baptist Metz, che ha pubblicato “Al di là della religione borghese” nel “Giornale di teologia” di Queriniana, in un saggio, intitolato “La teologia cristiana dopo Auschwitz” e un articolo con lo stesso titolo sul n. 5 di Concilium già citato.
Finalmente Metz dice la cosa che va detta ai cristiani: “Di fronte ad Auschwitz non è in gioco semplicemente una revisione della teologia cristiana dell’ebraismo ma una revisione della teologia cristiana come tale. Ai miei studenti per valutare lo scenario teologico io suggerisco un criterio estremamente semplice ma anche davvero esigente: chiedetevi se la teologia che state imparando possa rimanere la stessa sia prima di Auschwitz che dopo Auschwitz. Se la risposta è affermativa state in guardia”.

È una domanda che molti teologi non si fanno ancora. Nel libro di Michel Remaud edito da Morcelliana, intitolato “Cristiani davanti a Israele”, l’autore ripete gli stessi concetti di Metz.

Nella bellissima prefazione al libro “Le querce di Monte Sole” di don Luciano Gherardi, Giuseppe Dossetti propone pensieri molto profondi sull’olocausto e dice tra l’altro: “Bisogna riconoscere che c’è più teologia e più ermeneutica in libri come quelli di Wiesel di quanto non ce ne sia, mi scusi l’enormità, in tanti teologi accademici o in teologi ottimisti come quelli della liberazione o, forse, perché no, nella seconda parte della Costituzione Pastorale Gaudium et Spes”.

Jürgen Moltmann ha ripetutamente parlato di Auschwitz. Per esempio in un libretto intitolato “La catastrofe atomica: e Dio dov’è?” dice: “La catastrofe è la catastrofe in un certo senso di Dio stesso”.
La discussione su Auschwitz rimanda alla sofferenza di Dio. Dio stesso era ad Auschwitz, egli morì con coloro che soffocarono nelle camere a gas: le loro sofferenze e le loro lacrime sono le sue lacrime.
Tutti i teologi cristiani hanno citato l’episodio contenuto ne “La Notte” di Wiesel: un bambino è stato impiccato per rappresaglia dai nazisti insieme a due adulti. I prigionieri, come sempre, devono sfilare davanti agli impiccati, ma il bambino era così leggero che agonizzò per mezz’ora. Wiesel doveva sfilare insieme agli altri, sente dietro di sè un compagno che chiede: “E Dio dov’è?” e un altro risponde: “È quel bambino impiccato”.
Tutti i teologi cristiani hanno citato questo episodio e non è un caso, perché forse è l’immagine che più richiama il crocefisso.
Ma qui si annida un grande pericolo.
Ci sono teologi cristiani, per esempio Clemens Thoma in “Teologia cristiana dell’ebraismo” e Franz Mussner ne “Il popolo della promessa” e altri che dicono: «L’unica risposta alla domanda: “Dov’era Dio? è: “ad Auschwitz c’era la croce di Cristo”»
È una risposta, in certo senso, oltraggiosa, perché non si può rispondere all’ebreo che domanda: “Dov’era Dio?” “C’era Cristo”. E' come dirgli che la risposta viene non dalla sua fede ma dalla mia. Anche se le intenzioni sono buone, non si deve rispondere in questo modo.
Una confusione del genere c’è stata e ha provocato molta amarezza quando è stata beatificata Edith Stein e quando, l’anno precedente, è avvenuto l’incidente del convento carmelitano ad Auschwitz.
La tradizione ebraica conta molti testi sul pianto di Dio, sul lamento di Dio. Anche qui non posso dilungarmi, per cui ne leggo uno solo:
“L’angelo Metatron (l’angelo che sta vicino al trono di Dio) cadde sulla sua faccia e disse a Dio: “Io lavorerò ma tu non devi piangere”. Allora Dio disse: “Se tu non sopporti che io pianga io andrò in un luogo segreto dove tu non hai facoltà di entrare e piangerò là, come è detto: La mia anima piangerà in luoghi segreti”.
Il gemere è proprio di colui che fece abitare la sua Shekinah, la sua presenza in Sion.
Prima di mandare il diluvio Dio stesso fece giorni di lutto perché era afflitto nel suo cuore.

Avvicinandoci alla conclusione riprendiamo le domande, anche se Wiesel dice:
“State in guardia contro le risposte. Dobbiamo fare delle domande ma dobbiamo accontentarci delle domande. Le risposte sono sempre qualcosa che in qualche modo è una trasgressione, una hybris”.
Però rimanendo nella logica dei doppi pensieri possono esserci risposte.
Riassumendo: Perché Dio non sente il grido? In Esodo 2 Dio sente il grido degli ebrei schiavi in Egitto, perché allora Dio non ha sentito il grido di Auschwitz? o se lo ha sentito, perché non ha risposto?
Perché Dio non parla più, Lui che aveva parlato? Ha forse scelto l’impotenza?

Ci aiuta un articolo molto importante di Hans Jonas, filosofo ebreo tedesco, intitolato “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, edito da “Il Melangolo” di Genova.
Hans Jonas parte dalla teoria mistica ebraica detta dello “Tzim- tzum”. Cos’è il “Tzim-tzum”? Quando Dio crea il mondo deve fare il posto al mondo, altrimenti non può crearlo. Allora si contrae, si ritira per far posto al mondo. Può sembrare paradossale, ma se i cristiani pensano all’esperienza di Gesù che in certo senso è un altro aspetto dello “Tzim-tzum” lo possono capire.
Ora dice Jonas: “Dalla teoria dello Tzim-tzum viene poi tutta la dottrina ebraica tradizionale dell’esilio della Shekinah. Cioè la gloria di Dio, la presenza di Dio è esule, è una realtà esule sulla terra. È l’aspetto sofferente di Dio, e questa divisione che c’è in Dio non potrà essere conciliata se non nell’escaton.
Ora si presenta una scissura, c’è il Dio sofferente che poi è l’aspetto femminile di Dio”.
Jonas dice: “Devo proporre un mito. Il mio mito è il seguente, un mito come i miti platonici: Dio ha scelto, una volta per tutte, al momento dello Tzim-Tzum, di essere impotente e passivo e tutta l’esperienza del mondo dal big-bang in avanti, non dalla creazione dell’uomo in avanti, è tutta un’esperienza di una realtà da cui Dio si è astenuto”.

La conclusione perciò è: “L’onnipotenza divina è uno degli attributi di Dio; un altro attributo divino è la bontà; un altro è la comprensibilità, non nel senso che noi possiamo capire cosa è Dio, ma nel senso che Dio è qualcosa di logico, di giustificabile. I tre attributi in questione sono in un rapporto tale che ogni relazione tra due di loro toglie la possibilità del terzo. Egli è buono solo se non è onnipotente. Unicamente a questa condizione possiamo affermare che egli è comprensibile e buono nonostante che nel mondo esista il male, e poiché abbiamo ritenuto che il concetto dell’onnipotenza è comunque in sé problematico, è questo l’attributo che deve scomparire”.

Vorrei fare una considerazione su questa tesi di Jonas, che condivido in pieno tranne che per un aspetto.
È vero, noi abbiamo sostituito i miti mitologici con i miti metafisici, aristotelici, gli attributi di Dio. Qualunque teologo mistico direbbe che anche questi sono in certo senso mitici. Ma se è vero il mito di Jonas, il punto di partenza di Dio è in qualche modo una scelta: Dio ha scelto l’impotenza. Se invece fosse una condizione di partenza, Kivjakòl (se così si potesse dire), se cioè l’onnipotenza fosse un attributo dell’idolo, il Dio della religione non il Dio della fede e della Bibbia, e invece l’onnipotenza fosse il punto di arrivo della storia di Dio, non il punto di partenza?
Se fosse ciò che dice il profeta Zaccaria nel cap. 14,9: “In quel giorno (escatologico) Dio sarà uno e il suo nome uno”? In questo senso, cioè, uomo e Dio sarebbero compagni di strada che, come dice la mistica ebraica, possono ognuno agire per l’altro ma nessuno dei due per sè: l’uomo può consolare Dio, Dio può solo in qualche modo essere vicino all’uomo.

Sono discorsi paradossali ma abbiamo già visto l’alternativa ai discorsi paradossali nei ragionamenti di Rubenstein.
Allora avrebbe un senso quella specie di gioco di parole che fa Neher:
“Chi è come Te fra gli dei? che viene, dice la Scrittura, trasformato in questo altro: Chi è come Te fra quelli che tacciono, i silenziosi?”

Voi direte che è una risposta che non risponde. È bene che sia così, perché abbiamo visto che l’uomo che risponde, corre il rischio di far tacere la domanda e nulla sarebbe più pericoloso che far tacere la domanda.

Rispondiamo con miti perché i miti possono sempre essere contestati, possono adombrare qualche cosa ma lasciano vive le domande.

A conclusione vi leggo una parte della prefazione di Wiesel al libro “I teologi cattolici americani”. Vorrei terminare con la difesa della domanda.
“Nel libro nero” un’antologia — sulla distruzione degli ebrei russi durante l’occupazione nazista che Vassilij Grossman aveva pubblicato prima che Stalin ricominciasse la persecuzione anti-ebraica — “si legge la storia di una madre ebrea in Ucraina (è una storia vera); i suoi due bambini furono decapitati davanti ai suoi occhi. La donna impazzì, prese i due cadaveri mutilati e incominciò a danzare. Essa danzava, danzava ... mentre gli assassini la guardavano e ridevano. Alla fine uccisero anche lei. Questa donna che danza con i suoi bambini morti mi toglie il sonno. Io dico a me stesso che lei sta cercando di comunicarmi qualcosa con la sua danza, dal di là della sua follia e io mi chiedo che cosa potrebbe essere. Lo sapremo un giorno? Io ho paura di dire sì e io ho paura di pensare no”.

 

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